Lo Spazio Post-Sovietico e il dibattito alla Sapienza

 
 
 
Nei giorni 3 e 4 dicembre 2013 si è svolto presso La Sapienza la Conferenza Internazionale “Geopolitical Structures of the Post-Soviet Space”. Nata da una felice intuizione del Prof. Antonello Biagini, quest’iniziativa era stata pensata come un’occasione di riflessione storico-politica su una regione ancora poco trattata a dispetto della grande rilevanza strategica ed economica per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare. Una circostanza rilevata dall’Ambasciatore della Federazione Russa Sergey S. Razov, che ha notato come l’Italia riservi ai paesi di quest’area attenzione e sensibilità ben maggiori di ogni altro paese europeo.  
Tuttavia l’imprevedibile calendario della politica internazionale ha fatto coincidere la conferenza con i momenti più tesi delle proteste in Ucraina per la mancata sottoscrizione dell’Accordo con l’Unione Europea, catalizzando su Roma l’attenzione di osservatori e mezzi di comunicazione nel tentativo di leggere gli eventi ucraini tanto alla luce delle piazze di Kiev quanto delle considerazioni svolte alla Sapienza. Oltre a studiosi italiani e stranieri, il parterre di ospiti intervenuti comprendeva Nikolaj N. Bordjuzha, Segretario Generale dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO: un’alleanza militare assimilabile alla Nato che riunisce Russia e altre cinque repubbliche ex-sovietiche), Leonid V. Drachevskij, già Ministro per i Rappori della Russia con i paesi della CSI e Plenipotenziario del Presidente Putin in Siberia, Natalija A. Narochnizkaja, già Vicepresidente della Commissione Esteri della Duma e rappresentante di Putin durante la campagna presidenziale del 2012 e Michail V. Remizov, coordinatore scientifico della Commissione Militare-Industriale del Governo Russo. Accanto a loro gli Ambasciatori in Italia di Russia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakhstan, Ucraina e Uzbekistan. Va ricordato che ciascuno di questi paesi ha saputo trovare una propria via allo sviluppo e alla crescita, conseguendo talvolta risultati straordinari (come avvenuto per Azerbaigian e Kazakhstan).
Allo stesso modo, nell’ambito della politica estera le singole repubbliche post-sovietiche hanno definito linee diverse, in alcuni casi più concilianti con la Russia e con i moltissimi legami tra coloro che vent’anni fa erano cittadini di un unico stato, in altri casi più freddi o addirittura ostili (il conflitto del 2008 tra Russia e Georgia è un esempio eloquente). Pluralità di politiche che si è tradotta nell’adesione o meno ad organizzazioni internazionali viste come eredità del passato (CSI, CSTO, Comunità Economica Euroasiatica), nella nascita di nuove organizzazioni più regionalizzate (GUAM e Unione Centroasiatica) e in atteggiamenti molto diversi verso soggetti esterni quali Unione Europea e Nato. Si tratta, è evidente, di un quadro estremamente complesso. La Conferenza, aperta dai saluti del Rettore Frati e del Prorettore Biagini, è stata così l’occasione per ascoltare accanto ad analisi scientifiche le posizioni di personalità istituzionali di primo piano della Federazione Russa, nonché dei massimi rappresentati ufficiali di buona parte dell’ex Urss. Inevitabilmente, parte dell’attenzione si è concentrata sui disordini in corso a Kiev e sulle conseguenze dell’eventuale adesione all’Ue.
Se da un lato la rappresentate dell’Ambasciata d’Ucraina ha sottolineato che l’integrazione comunitaria non dovrebbe essere letta in chiave antirussa, bensì come il conseguimento delle aspirazioni ucraine ad uno sviluppo sociale ed economico ispirato alle realtà dell’Europa Occidentale, dall’altro alcuni relatori russi hanno rilevato come l’attuale situazione sconsigli questa scelta: non solo, ha osservato Narochnizkaja, tra Ucraina e Russia ci sono legami culturali, linguistici, sociale e storici fortissimi, ma ben l’80% della produzione industriale di Kiev è rivolta alla Russia e la conseguenza di un adesione all’Unione Europea comporterebbe lo sfascio della già traballante economia ucraina. In secondo luogo si pone la questione dell’integrazione euroasiatica: Russia, Bielorussia e Kazakhstan hanno già istituito un’unione doganale e uno spazio di libero scambio e proseguono verso un processo d’integrazione che punta a coinvolgere altri paesi ex-sovietici (Armenia e Kirghisia hanno espresso volontà in questa direzione).
In più occasioni i fautori del progetto euroasiatico hanno invitato Kiev ad aderirvi, precisando che, in ogni caso, integrazione europea ed euroasiatica sono tra loro incompatibili. Posizione ribadita dai presidenti Putin e Nazarbaev pochi giorni fa. Tutti i relatori sono stati concordi nel riconoscere l’esclusiva competenza del Governo ucraino in merito. I diplomatici presenti hanno poi rappresentato l’evoluzione dei rispettivi paesi dopo il 1991, segnalando i successi nella costruzione di società in cui coesistono pacificamente nazionalità, etnie e religioni diverse, ciascuna messa nelle condizioni di contribuire al successo comune. Di questa realtà, Baku è uno dei casi più evidenti, come osservato non solo dall’Ambasciatore azerbaigiano, ma anche dai suoi colleghi. Tutti gli ambasciatori hanno sottolineato gli ottimi rapporti politici ed economici che legano i loro paesi all’Italia e ne hanno auspicato un ulteriore incremento.
Le conclusioni sono state affidate all’On. Franco Frattini, già Ministro degli Esteri e attualmente candidato a succedere ad Anders Rasmussen quale Segretario Generale della Nato. Nel suo intervento ha richiamato i fortissimi interessi comuni in materia di sicurezza, dalla lotta al terrorismo e alla pirateria fino al contrasto al traffico di esseri umani e di narcotici ed ha ricordato gli importanti contributi di paesi ex-sovietici sia in Afghanistan che nella ricostruzione dell’Iraq. Una cooperazione da approfondire e che dovrebbe fugare ogni atteggiamento di contrapposizione e di scontro. Quanto ai fatti dell’Ucraina, Frattini ha notato che il mancato accordo non rappresenta un’occasione definitivamente perduta, ma suggerisce una riconsiderazione dei tempi e delle condizioni, ferma restando l’esigenza che la decisione venga rimessa unicamente alla libera e sovrana determinazione del governo di Kiev.

Il pensiero e l'insegnamento di Gramsci nella transizione venezuelana


13 dicembre 2013 ore 17

Aula Organi Collegiali


Presentazione del volume di Jorge A. Giordani, La transizione bolivariana al socialismo, Natura Avventura Edizioni, 2013, revisione e reimpostazione critica per l'edizione italiana di L. Vasapollo e R. Martufi


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Il dibattito politico-culturale a Mosca, l'edificazione di un'identità nazionale condivisa e il rilancio del soft power russo


Lo scorso 30 ottobre l’Istituto Russo per le Ricerche Strategiche di Mosca ha organizzato la conferenza “La Russia e il Mondo allo scoppio della Prima guerra mondiale”. Alla conferenza ha

partecipato una delegazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, per presentare i primi risultati di un lavoro di ricerca ancora in corso sotto la direzione del Prorettore Vicario dell’Ateneo Prof. Antonello Folco Biagini.

Nel corso dei lavori è emerso un vivace dibattito storiografico sulle origini della Prima guerra mondiale e sul ruolo svolto dalla Russia rispetto al tramonto dell’equilibrio di potenza europeo del XIX secolo. Rispecchiando una frattura presente anche nella scena politica e nella società russa, i relatori si sono divisi tra i sostenitori della formula politica dell’élite zarista (ortodossia, monarchia, nazione), che si diffuse nell’Ottocento come risposta alla rivolta decabrista del 1825, e coloro che, al contrario, concordano con la chiave di lettura di questi eventi offerta dagli storici d’epoca sovietica.

I primi sostengono la tesi per cui la Russia zarista non disponeva di piani strategici offensivi particolarmente avanzati alla vigilia della guerra e che con l’avvento dei bolscevichi l’esercito russo si sarebbe ritirato dai combattimenti nel momento in cui avrebbe potuto cogliere i frutti dei sacrifici sopportati negli anni precedenti. In questa prospettiva hanno proposto di ribattezzare la Grande guerra come “Seconda guerra patriottica”, in quanto dovrebbe essere posta in linea di continuità con la “Prima guerra patriotica” combattuta contro le truppe napoleoniche nel 1812 e la “Grande guerra patriotica” condotta contro la Wehrmacht tra il 1941 e il 1945.

A far da contraltare a questa posizione è stato un altrettanto nutrito gruppo di intellettuali vicini alla prospettiva della storiografia sovietica che hanno insistito sull’idea che la Russia di Nicola II progettava da tempo il suo impegno in una guerra generale e che il trattato di Brest-Litovsk venne sottoscritto nel momento culminante per le tragedie direttamente o indirettamente causate da una guerra mal pianificata e altrettanto mal condotta (rotta dell’esercito, carestie, instabilità politica, ecc…). Rispetto a tale confronto il rappresentante del presidente della Federazione Russa non ha appoggiato apertamente né l’una, né l’altra posizione, sottolineando gli elementi veritieri insiti sia nell’una, che nell’altra riflessione.

Dopo il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, la Federazione Russa - che ne ha raccolto l’eredità politica - si è trovata alle prese con due questioni aperte di carattere politico-culturale: 1) costruire un nuovo senso d’identità nazionale, per arginare la frantumazione del nuovo Stato che si era prontamente verificata con l’indipendenza degli Stati del Baltico, del Caucaso e dell’Asia centrale; 2) trovare una nuova fonte di legittimazione per l’azione politica interna e internazionale dello Stato neo-nato. La risposta a tale esigenza, comune a numerosi Stati multietnici e multilinguistici, è stata più farraginosa in Russia, a causa del ciclico emergere, in corrispondenza dei turning point della vita nazionale, della volontà di nemesi politica e della complementare necessità di rimuovere le costruzioni socio-istituzionali ereditate dal passato.

Se nel corso dell’era Eltsin non si era giunti ad una conclusione e lo scontro tra élite anti-sovietiche e filo-sovietiche aveva polarizzato il dibattito culturale e politico a favore delle prime, durante le presidenze di Putin e Medvedev si è proceduto alla complessa operazione di recupero dell’intero bagaglio storico che ha preceduto l’attuale corso di Mosca, declinato all’interno di una formula politica che si potrebbe definire “sincretica”.

Il primo elemento della nuova “ideologia” è l’identità cristiano-ortodossa e il legame tra il Cremlino e il patriarcato di Mosca. La chiesa ortodossa ha tradizionalmente garantito una sorta di legame spirituale del popolo con lo Stato, che si estendeva su territori enormi e che - dai tempi della Rus’ di Kiev fino all’Impero zarista di Nicola II - aveva rafforzato il senso di appartenenza nazionale.

Ma non bisogna dimenticare che, sebbene sotto forme più discontinue e meno ufficiali, tale rapporto era rimasto vivo anche durante il periodo comunista svolgendo una funzione determinante per la salvaguardia dello Stato in alcuni momenti cruciali, in particolare nel corso della Seconda guerra mondiale. Il secondo elemento è il passato sovietico, che continua tuttora a influenzare la vita quotidiana in Russia e fa parte della memoria storica di una fetta consistente della popolazione. La nostalgia per il passato sovietico, che già negli anni Novanta serpeggiava tra le generazioni più avanti negli anni, si è cominciata a diffondere anche tra i più giovani, che tendono a idealizzarne l’immagine utilizzando l’apparato simbolico-ideologico comunista e le suggestioni ad esso legate nelle rivendicazioni movimentiste e nella creazione di nuove sub-culture (una tendenza presente anche in Europa occidentale nella forma della cosiddetta Ostalgie).

L’opera di nation-building e di elaborazione di un nuovo soft power restano comunque un processo ancora in corso e non privo di contraddizioni. Sebbene le autorità politiche russe stiano alimentando nelle sedi istituzionali il dibattito su questo tema, di sovente si trovano costrette a dover mediare tra i partecipanti ad un dibattito serrato nella comunità scientifica e accademica. Ma le posizioni emerse sono solo apparentemente inconciliabili, trovando il loro minimo comun denominatore nella volontà di potenza della Russia e in uno spiccato nazionalismo. La tensione di questi dibattiti, quindi, svolge la funzione positiva di esasperare la diversità degli approcci per evidenziare alla fine la presenza di elementi comuni che costituiscono il nuovo universo valoriale dello Stato. 

 
di Gabriele Natalizia e Diana Shendrikova

L’Azerbaigian, Paese giovane e realtà in grande crescita

 
 
BAKU (AZERBAIGIAN) – Il 31 ottobre e il primo novembre 2013 si è svolto a Baku, in Azerbaigian, un evento internazionale molto importante: il Baku International Humanitarian Forum. Con la presenza di personalità del mondo politico internazionale, alti funzionari, diplomatici, accademici ed esperti provenienti da tutto il mondo, il Forum si è articolato in una serie di sessioni di discussione sui temi riguardanti gli aspetti umanitari dello sviluppo economico, le innovazioni scientifiche e la diffusione dell’educazione, lo sviluppo sostenibile, l’identità nazionale, le biotecnologie, il ruolo dei mass media nel sistema di informazione globale.

L’ampiezza dei temi non ha impedito che al margine delle sessioni si svolgesse una fruttuosa opera di networking, ad ogni livello. Il Forum si è aperto con il discorso del presidente azerbaigiano Ilham Aliyev, è proseguito con il messaggio del presidente russo Vladimir Putin e quello del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon. La lista dei partecipanti ha previsto l’intervento di 7 ex presidente e capi di Stato, 13 premi Nobel e oltre 100 personalità pubbliche di livello mondiale, nel contesto di circa 800 partecipanti totali in rappresentanza di 70 paesi da tutti i continenti. La presenza di ex capi di stato, ambasciatori, personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, ha dato anche un profilo mondano all’evento. Dall’Italia spiccano i nomi dell’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, del rettore dell’Università di Siena Angelo Riccaboni, del professore Sergio Marchisio della Sapienza Università di Roma, del senatore professoressa Stefania Giannini, nonché del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che incontrando l’omologo azerbaigiano di Baku ha confermato il rilancio del gemellaggio esistente tra le due città, Napoli e Baku, che notoriamente si caratterizzano per un golfo simile e una vocazione marittima che risulta essere sostanziale anche nel carattere aperto e ospitale di italiani e azerbaigiani.
L’Azerbaigian è un Paese che colpisce per l’evidente crescita economica, la società giovane e laica, un mondo culturale capace di creatività e innovazione: questi fattori sono elementi reali per il vero sviluppo di uno Stato. La possibilità di grandi risorse energetiche, infatti, sta fungendo da volano anche per le politiche sociali, educative e culturali. Certo, il processo di costruzione della nazione non è ancora compiutamente raggiunto così come le istituzioni stanno svolgendo un percorso ancora lungo per il pieno raggiungimento degli standard occidentali di libertà e democrazia: tuttavia si può ben dire che le premesse per dei risultati fruttuosi nel futuro dell’Azerbaigian sono reali. Infatti in una regione complessa, al margine tra grandi aree culturali, l’Azerbaigian si trova al centro di questioni geopolitiche complesse e di grande interesse. Baku è infatti un punto di riferimento anche per Bruxelles, in una prospettiva di sempre maggiore integrazione con l’Unione Europea all’interno del programma di partnership orientale. La cultura laica che è alla base dell’islam sciita è la pietra angolare per costruire la prospettiva di un Paese orientato verso i valori occidentali, ma con ascendenze orientali e radici turche saldamente asiatiche.
La storia della costruzione dello Stato azerbaigiano, con la prima indipendenza raggiunta al crollo dell’Impero zarista (1918-1920), è un punto di riferimento storico-culturale per la definizione di un Paese che ha ritrovato la strada dell’indipendenza dall’Unione Sovietica solo nel 1991. In quel periodo, però, si è anche riaperta la questione nazionale con l’Armenia, che ha avuto come conseguenza il conflitto armato per il Karabagh e l’occupazione da parte armena della regione contesa insieme a quella delle regioni limitrofe. La situazione sul campo è sostanzialmente congelata – è solitamente definito un frozen conflict – ma la presenza di centinaia di rifugiati dalla regione e il fallimento delle trattative che da anni sono ferme al mantenimento del cessate il fuoco, è per certo un elemento di tensione all’interno del Paese e nella regione. Nonostante ciò l’Azerbaigian tenta di mantenersi un Paese affidabile e persevera una politica di equilibrio tra le “superpotenze” (Russia e Stati Uniti) e le potenze regionali (Turchia, Iran), mentre tra i suoi vicini l’Armenia è più chiaramente orientata verso la Russia e la Georgia è stata notevolmente vicina all’Occidente. In tale contesto la scelta migliore per le piccole e medie repubbliche del Caucaso meridionale è sicuramente quella di perseguire una politica estera “multi-vettoriale”, con una prospettiva geopolitica multidirezionale. Il mantenimento di un delicato ma importante equilibrio – per la stabilità e la sicurezza internazionale in una regione chiave per l’approvvigionamento energetico – nell’area del Caucaso e del Mar Caspio appare il modo migliore per mantenere il Paese in una condizione di reale indipendenza e di autonomia nella gestione delle ingenti risorse energetiche.

Andrea Carteny

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